In questa strana stagione italiana, cinema e carcere hanno dialogato, parlato la stessa lingua, creando un corto circuito che ha ribaltato luoghi comuni apparentemente inossidabili.
“Entrando a Rebibbia, i fratelli Taviani si sono spogliati di qualsiasi pregiudizio. Mettendo il cinema al servizio del carcere, istituzione di una potenza inaudita”, commenta il regista e drammaturgo Fabio Cavalli, instancabile animatore della compagnia dei Liberi Artisti Associati del penitenziario romano. Il suo Giulio Cesare, svelato dalle immagini potenti
dei registi di “Padre padrone”, sta facendo il giro del mondo. E con il film, gli attori detenuti della Sezione G12 Alta Sicurezza che hanno prestato corpo, voce e sentimento ai personaggi del pluripremiato “Cesare deve morire”.
È ormai un anno e mezzo che Fabio Rizzuto, Stratone nella pellicola dei Taviani, rientra a Rebibbia – da dove è uscito nel 2006 – per recitare: ad aprile scorso per il film, oggi per lo spettacolo “Exodus” che andrà in scena al teatro Quirino il 28 settembre, come Salvatore Striano (indimenticabile Bruto in “Cesare deve morire”), ora attore a tempo pieno, tra cinema, fiction e teatro.
Classe ’74, una vita nei quartieri spagnoli, per le riprese ha fatto ritorno nel carcere dove ha scontato una pena di otto anni e, soprattutto, dove ha imparato il mestiere dell’attore. “Dopo avermi visto recitare a Rebibbia”, racconta con orgoglio, “Umberto Orsini mi ha scelto per la sua “Tempesta”, che avevo già interpretato con la compagnia del carcere”. Da lì, l’avvio in pochi anni di una carriera che conta titoli come “Gomorra”, “Fortapàsc”, “Gorbaciof ”, ma anche ruoli per il piccolo schermo (“Il clan dei camorristi”) o progetti sperimentali come la docufiction “Napoli Napoli Napoli” firmata da Abel Ferrara. Per Salvatore, l’esperienza con i Taviani è stata una palestra importante: “Ci hanno guidati passo dopo passo, suggerendo tempi e movimenti. Da quando sono entrati a conoscere la realtà del carcere fino allo svolgimento delle riprese. La prima cosa che ci hanno chiesto è stata quella di recitare nei nostri dialetti di origine. E questo ci ha aiutato a mettere una parte di noi, della nostra storia, dentro ai personaggi”.
In un percorso che diventa anche ricerca personale, in qualche modo catartica.
Perché, continua Striano, “chi meglio di noi può esplorare la lezione di Stanislavskij? Abbiamo molto da tirare fuori. Il teatro ci cura, il cinema ci denuda”.Per preparare i suoi attori a subire l’invadenza dell’occhio della macchina
da presa, Fabio Cavalli ha lavorato a lungo con la telecamera a mano: “L’obiettivo era di arrivare ad una serenità di rapporto con il cinema, perché la nostra compagnia è abituata alla presenza del pubblico vivo, alla relazione fisica con gli spettatori che si crea soltanto con il teatro, mentre sul set è difficile percepire cosa stia accadendo”.
A partire dal2002, infatti, da quando il Centro Studi Enrico Maria Salerno ha assunto la responsabilità delle attività teatrali e formative nel carcere di Rebibbia, le tre compagnie di detenuti dirette da Laura Andreini Salerno, Fabio Cavalli e Valentina Esposito si sono esibite di fronte ad una platea di 22mila spettatori sul palcoscenico del teatro aperto al pubblico della città, portando in scena Dante, Eduardo, Giordano Bruno. E, naturalmente, Shakespeare.
Racconta Fabio Rizzuto: “Il cinema ci ha dato maggiore visibilità, ma il nostro teatro è sempre stato frequentato da registi di fama internazionale, da scrittori e intellettuali. Ricordo la battuta di Carlo Cecchi:
‘Fuori siamo sfortunati, perché gli attori veri li hanno arrestati tutti’”.vengono lette e valutate le sceneggiature, per poi dare il via alle società di produzione. Nel carcere sono ammesse le riprese, ma solo se l’opera non danneggia l’immagine degli istituti penitenziari e dei detenuti”.
“Rientrare in cella dopo la fine delle riprese, così come dopo ogni spettacolo, è duro”, conclude Cavalli. “Quando cominci queste esperienze sai già che ti entusiasmerai per le piccole cose, ma i riflettori sono importanti, perché l’arte ha in carcere una funzione salvifica. Ora i miei attori andranno in tutto il mondo. Hanno messo in conto di chiudere con il passato. Hanno fatto una scelta di vita. Improbabile per molti di loro riprendere quel cammino tragico”.
Oggi “Cesare deve morire” viene mostrato nelle carceri e nelle scuole, seguendo un circuito parallelo a quello delle sale cinematografiche.
“Il film ha mille vite e un messaggio sociale forte – afferma Salvatore Striano – Per questo va veicolato il più possibile. È fatto per i giovani, per quelli che verranno”.
FILM BLINDATO
L’articolo prevedeva anche un’intervista con il regista Armando Punzo, della Compagnia della Fortezza di Volterra
dove si è formato Aniello Arena, attore di “Reality”. Purtroppo non è stato possibile realizzarla per il divieto posto
dall’ufficio stampa del film e il diniego della responsabile delle pubbliche relazioni della Compagnia della Fortezza,
evidentemente preoccupata , dopo l’esperienza di Cannes, che l’argomento fosse affrontato con un taglio sensazionalistico. Ci dispiace di non essere riusciti a spiegare che il nostro approccio al tema era di altro tenore, e ce ne scusiamo con i lettori.