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TENDENZE/Telefilm è Bello

di Adriana Marmiroli


“Cahiers du Cinéma”, la bibbia dei cinefili francese, ha dedicato la copertina del numero di luglio-agosto e servizio portante di una ventina di pagine a quel fenomeno che sono le serie USA.
Sostiene, più o meno testualmente, che “il vento del cinema soffia dove vuole”, a significare che c’è più cinema in tanti telefilm che in troppi film, per poi sottolineare che quegli affreschi poderosi della nostra società  che a Hollywood erano appannaggio del grande schermo, sono ormai le televisioni, via cavo e free, a produrli.


Una per tutte, “Mad Men” di Matthew Weiner, in onda sulla pay Amc (e in Italia passato prima su Cult e ora, in chiaro, su Rai4): ambientata in una piccola agenzia pubblicitaria newyorkese negli anni 60, racconta gli uomini che ne fanno parte ma anche usi e costumi, eventi storici e sociali di un decennio segnato da cambiamenti travolgenti.
Insomma in primo piano piccoli uomini con le loro vicende, ma per tracciare un affresco di grande respiro.


Se “Mad Men” è il capolavoro del momento, dietro vi sono però decine di altre serie altrettanto ben scritte, interpretate e ambienate, prodotto di un ramo dell’industria dell’intrattenimento che investe non solo in produzione ma anche (e molto) in “ricerca”: script rielaborati a più riprese e da più mani, piloti affidati a interpreti di grande levatura e popolarità  e a produttori e autori di vaglia (Martin Scorsese non è che l’ultimo arrivato di una serie che comprende James Cameron, i fratelli Ridley e Tony Scott, Agnieszka Holland, Steven Spielberg, Alan Ball, Brian Synger, Barry Levinson, mentre c’è chi, arrivato dalla Tv come J.J. Abrams o Paul Haggis, è stato trattato da innovatore e salvatore del cinema), analizzati fin nei loro minimi risvolti, testati, studiati anche per anni e, in fine, accompagnati per il lancio da politiche promozionali e di marketing aggressive e ultramirate.
Dietro a questa splendida vetrina c’è insomma tutta una macchina da guerra dell’intrattenimento che la rende vincente e planetaria.


Se la Francia ha “scoperto” le serie, noi non siamo da meno: Raidue e Italia 1, le considerano “prodotto pregiato” di cui infarcire i palinsesti a ogni orario, c’è la serie giusta per ogni fascia di pubblico.
Ultimamente ci si è anche aggiunta Mtv (e in modo abbastanza massiccio, se si pensa al suo status di rete musicale).
Le pay tv dei telefilm hanno addirittura fatto un cavallo di battaglia, Mediaset contro Sky, proprio come con cinema e calcio.


E in Italia, produttivamente parlando arriveremo mai a questi livelli d’eccellenza?
Il panorama attuale non è esaltante.
Il tono dominante è quello della soap, dell’agiografia.
Le miniserie che per anni hanno presidiato la prima serata di Raiuno e di Canale 5 forse sono giunte al capolinea: troppo costose, piatte, edulcorate, non raggiungono troppo spesso il pubblico più ambito dalla pubblicità .
Anche se l’impressione generale è che muoversi possa produrre più danni che stare fermi, qualcosa sta cambiando.
Qualche produzione si è distaccata dalla gran massa per lo stile e la scrittura di alt(r)o livello: Taodue con alcune delle sue serie poliziesche e Publispei con le commedie familiari, Palomar con “Montalbano”: ma sono subito diventate “genere”. Più originali restano “La meglio gioventù”, “Quo vadis, baby”, “Romanzo criminale”, “Boris”.
Nel suo pauperismo ruspante anche “La squadra” di Raitre aveva connotazioni insolite e industriali, ma poi il “giocattolo”, nel tentativo di rinnovarlo, si è rotto.


Non si stupisce della stagnazione italiana un produttore dell’ultima generazione come Lorenzo Mieli, ad di FremantleMedia (ex Grundy) e WildSide.
«Un sistema come quello televisivo tende per sua natura alla conservazione: in tv è difficile che esistano veri “salti di qualità “, anche in sistemi più sviluppati del nostro.
L’evoluzione dei linguaggi e dei modelli di business va avanti per piccoli strappi.
Certo, il format di rottura serve sempre.
Ma una strategia industriale non si costruisce sulle eccezioni (vedi “Boris”, che è un’anomalia).
Partendo dall’eccezione felice, bisogna poi nutrire quotidianamente l’attitudine al nuovo: nel pubblico, nei broadcaster, e soprattutto nelle risorse artistiche.
La cultura del nuovo la si fa anche crescendo nuove leve di sceneggiatori e di attori, investendo in formazione. Giusto per dire che cosa hanno gli USA e noi no: un lavoro congiunto che si costruisce sui tempi lunghi e che, inevitabilmente, ha dei costi».


Ma, come giustamente sostiene Maurizio Totti, presidente del Gruppo Iven, holding di cui fa parte Colorado Film, società  che dal cinema si è spostata anche verso la fiction televisiva,
«quella americana è un’industria. Il settore, con quello degli armamenti, più importante della loro economia.
Questo ne spiega l’eccellenza. Noi possiamo solo imitarla, cercare di riprodurne certi meccanismi e sperare che si possano migliorare i contenuti.
Ma c’è paura a cambiare. Tu puoi anche aspirare a fare qualcosa di nuovo, ma poi ti chiedono di fare un prodotto “stretto-largo”, mirato su un certo pubblico ma che piaccia tutti.
E questo abbassa il livello del prodotto per eccesso di ovvietà  o, in alternativa, porta a spremere i limone fino all’ultima goccia».
Così finisce che la coperta stiracchiata lasci entrare troppi spifferi. Raidue e Italia 1, cui dovrebbe essere delegata la sperimentazione di nuovi format e  linguaggi, hanno budget ridotti rispetto alle due “ammiraglie” (nel caso di Raidue ormai inesistenti, in realtà , da quando la fiction di produzione italiana è uscita dai suoi piani produttivi); le pay hanno più coraggio (ma minori budget) e hanno aperto la strada a quel po’ di innovazione.
«Il nostro “Quo vadis, baby” su Sky ha aperto la strada a “Romanzo criminale” ed è servito a lanciare l’idea di una fiction diversa», ricorda Totti.
Sarebbe bello se le pay riuscissero a innescare un ciclo virtuso che inducesse, come poi è avvenuto negli Usa, i network a svecchiarsi. Tuttavia la paura di sbagliare prodotto, e mettersi automaticamente fuori mercato, è forte per tutti, broadcaster e produttori.
«Rischi di bruciarti per anni», commenta Totti.
Perché è ben nota la criticità  di un mercato ristretto come quello italiano (anche se i tedeschi hanno dimostrato che questa tendenza si può anche ribaltare).


«Ne consegue – secondo Mieli – un sistema industriale involuto: meno pubblico significa meno soldi, quindi minore disponibilità  al rischio, quindi minore spazio di manovra per progetti innovativi».
E minori investimenti nella fase ideativa e di scrittura:
«Che è forse il vero punto debole delle nostre produzioni – secondo Totti -. Quante volte si rimpiange questa manchevolezza quando una fiction si rivela debole ».
Non bastassero questi limiti, dal momento della messa in onda i produttori sono tagliati fuori dalla proprietà  dei diritti del loro lavoro: annosa diatriba.
Ancora Mieli: « E’ la grande spina nel fianco dei produttori italiani. Il potere contrattuale prossimo allo zero che i produttori hanno nei confronti dei broadcaster è un’anomalia tutta nostra».
Totti scherza su questo “esproprio”, seppure con un po’ di amarezza: «Ti resta la soddisfazione di aver fatto una bella cosa. E la libidine di altre stagioni».
Ulteriore corollario a questa situazione: raramente i nostri prodotti escono dai patrii confini.
«Con questo – è ancora Mieli a parlare – non voglio dire che i produttori farebbero meglio delle strutture di distribuzione interne alle reti: il prodotto italiano – che è in buona misura prodotto generalista – risente per sua natura di un’endemica tendenza al localismo (di storie, caratteri, location, moduli narrativi)».
Ergo ha poco appeal internazionale.
E latita clamorosamente anche tra i format.
Una riposta può essere incrementare le coproduzioni internazionali: l’Italia ha una tradizione consolidata che dalle miniserie pare allargarsi anche alle serie serializzate.
Merito, come osserva Mieli «una volta tanto, della crisi, che ha fatto sì che tutti i produttori in tutti i Paesi abbiano meno margine di rischio».
E quindi puntino di più a consociarsi.
Insomma, il momento sarebbe propizio perché anche da noi arrivi a spirare quel venticello di rinnovamento che altrove ha generato piccoli capolavori.


MIPCOM 2010/Arrivano i Mad Men
C’è grande fermento al MipCom: il mercato internazionale dei contenuti audiovisivi e transmediali, che si svolge a Cannes dal 4 all’8 ottobre.
Si parte con il debutto degli Screenings in anteprima mondiale di due produzioni targate Lionsgate: la “˜neonata’ “Running Wilde”, e un inedito episodio della quarta stagione della fortunata, raffinatissima serie “Mad Man”, già  vincitrice di 13 Emmy Awards (quest’anno quello come Outstanding Drama Series e Outstanding Writing for a Drama Series). Guest star della serata, i divi della serie, Jon Hamm, Elisabeth Moss and John Slattery, presenti anche il giorno successivo alla cena di premiazione per Jon Feltheimer, amministratore delegato di Lionsgate, (Personalità  dell’Anno).
Il 6 ottobre, infine, i tre partecipano all’evento organizzato da Robert Redford in onore del primo anniversario del Sundance Channel in Europa.
Fra gli appuntamenti più importanti del mercato, le sessioni di matchmaking dedicate alle Film Commission Internazionali e ai Media Funds, quelle di “Asian Content Exchange” (con i produttori dei più innovativi format di Cina, Giappone e Corea), e la conferenza sul sistema di incentivi francesi alle produzioni audiovisive.
Quest’anno i riflettori del MipCom si accendono sull’Australia: il 5 ottobre il regista e sceneggiatore Gregor Jordan, lancia il progetto transmediale “Smashcut”, da lui coprodotto assieme a The Project Factory.

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