di Cristiana Paternò
Di scrittori saccheggiati dal cinema ne conosciamo tanti.
E sempre di più si va caccia di belle storie o di storie importanti nel territorio della letteratura.
A volte è uno stratagemma sicuro per chiudere una produzione, anche quando poi del libro resta ben poco, a volte il successo del libro contiene una promessa di pubblico, come nel caso di “Caos calmo” o “Gomorra”.
Tra gli irriducibili si è arreso anche Ferzan Ozpetek, che aveva sempre raccontato emozioni sue e che ora ha scelto un romanzo di Melania Mazzucco, “Un giorno perfetto”, per il suo film in concorso quest’anno a Venezia.
Altri autori, come Gabriele Salvatores, praticano da anni, e con soddisfazione, questa strada: “Come dio comanda” ne è solo l’ultimo esempio.
Ma di un altro fenomeno vogliamo parlare, un fenomeno in crescita esponenziale, quello degli scrittori che diventano registi, spesso con risultati non memorabili, a volte con lo spirito di un uomo di mezza età che si concede una scappatella con l’amante per poi tornare dalla legittima consorte: è stata proprio Melania Mazzucco a lanciare la similitudine in un articolo apparso sul “Sole 24 ore” a margine del Festival di Locarno, che quest’anno, proprio grazie agli autori affascinati dal cinema, ha attirato l’attenzione del pubblico e dei critici su questo tema di riflessione.
Tra gli ospiti più interessanti di Locarno c’era ad esempio Chuck Palahniuk, l’ex meccanico diventato scrittore di tendenza che, dopo “Fight Club”, ha visto trasformare in pellicola anche lo scandaloso “Choke” con Angelica Huston.
Lui non si è convertito, anzi ha descritto il cinema come un “grande nemico” dichiarando che non intende neppure diventare sceneggiatore.
Però il collega Michel Houellebecq, altro personaggio avvezzo agli scandali, la pensa diversamente e infatti ha diretto un suo romanzo “La possibilità di un’isola”, senza lasciare alcun segno se non una scia di noia, e qualcuno spera che chiuda qui la sua carriera.
Abbiamo notizia di un’altra scrittrice, Rebecca Miller, figlia del grande Arthur, che è recidiva.
“The Private Lives of Pippa Lee”, da un suo romanzo sulla crisi di una donna di cinquant’anni, sarà la sua quarta regia.
Rebecca, apprezzata per “Personal Velocità “, può permettersi ormai un bel budget e un cast importante, da Robin Wright Penn a Monica Bellucci.
“Noi dei libri invidiamo il cinema, perché sta al centro del sistema nervoso, come accadeva al romanzo nell’Ottocento.
Noi oggi siamo stati sbattuti più in periferia, anche se conserviamo il privilegio della libertà di essere più acuti, più scomodi”.
Questa utile sintesi ce l’ha fornita Alessandro Baricco, l’altro scrittore che la sessantunesima edizione di Locarno ha promosso regista.
Non sappiamo se la sua sarà una scappatella o un secondo matrimonio, ma sicuramente non è sesso senza amore.
“Lezione 21” è un film tutt’altro che banale, un film labirinto che sembra un ibrido tra un disegno di Escher e una favola dei fratelli Grimm. Prodotto da Domenico Procacci e Rai Cinema, girato con un budget da 5 mln di euro, in uscita in autunno con la 01, recitato in inglese da attori come John Hurt e Noah Taylor, ha immagini ricercate e originali costruite con la consulenza di Tanino Liberatore, il papà di Ranxerox.
L’immaginario di Baricco è abbastanza lussureggiante da aver già ispirato altri registi, Tornatore in particolare gli deve “La leggenda del pianista sull’oceano”.
Baricco ne è consapevole: “Un tempo, per autori come Gadda e Calvino, il cinema era impensabile.
Oggi la scrittura si è avvicinata moltissimo al cinema, i due universi si sono uniti e sembra che con un solo passo si possa passare dall’uno all’altro, a patto di avere le condizioni economiche per farlo.
Eppure quel passo presenta molti più problemi di quello che pensiamo. Quel gesto apparentemente naturale è molto rischioso e se qualcuno riesce, come Paul Auster, molti altri falliscono”.
Inevitabilmente si parla delle differenze tra la scrittura e il cinema.
“Il film “” dice ancora Baricco “” ha molte armi in più.
E’ come se la parola costruisse strutture che il cinema fa esplodere. Quando filmi esplode tutto, quando monti la struttura si ricompone.
Il film ha una forza maggiore rispetto al libro, la parola diventa carne, il fisico prevale sul mentale.
Ecco, quando scriviamo appoggiamo le cose sul tavolo, ma il cinema le tocca, le spezza, le guarda da lontano e da vicino”.
Lui sicuramente ama guardare le cose da prospettive diverse, inusuali. “Lezione 21” parte da uno dei capolavori indiscussi della musica classica, la Nona Sinfonia, e lo smonta pezzo dopo pezzo, a volte con ferocia, a volte con dolcezza.
E’ un film astratto, che tenta di essere metafisico, ma è anche un fantasy e magari un western, con il vecchio pistolero Ludwig van Beethoven che sfida i suoi contemporanei e li stende con l’Inno alla Gioia, mentre un anonimo violinista muore assiderato su un lago ghiacciato a trenta chilometri da Vienna nell’inverno del 1824.
“Non mi piace l’immagine di Beethoven tramandata nella cultura ufficiale.
Volevo esercitare uno sguardo laico e non sottomesso su un’opera che fin da piccoli ci hanno insegnato a osannare.
Penso che si debba fare lo stesso anche per il Partenone, le tragedie di Euripide, l’Ulisse di Joyce.
Il professor Mondrian Killroy usa la categoria del sopravvalutato, io penso semplicemente che invece di guardare queste opere di fronte, bisognerebbe spostarsi di fianco, scoprire dove la struttura si sgretola, dove c’è il difetto, per trovare una bellezza più vera”.
Gli piace prendere la realtà alla sprovvista, affrontarla alle spalle. “Faccio un lungo giro per raccontare qualcosa in cui poi le persone si riconoscono.
Parlo della vecchiaia, per esempio.
Mi chiedo cosa ne è dei sentimenti, della passione e del sesso quando la bellezza scivola via dal tuo corpo e dal corpo di chi ami.
In fondo tutto il film si può vedere come la preparazione all’ultimo discorso di Mondrian Killroy alla sua allieva prediletta: spiegandole il segreto di Beethoven le spiega come mai lui e lei non sono finiti a letto insieme.
Molti si perderanno in questa giungla, ma qualcuno scoprirà che si parla di cose vicine”.
“Scrivere libri è una forma di cecità , lo scrittore entra in una stanza e vede quello che vuole vedere, il cinema vede quello che c’è e riesce a nascondere ben poco.
C’è tutto un mondo che nei libri viene eclissato e nel cinema salta fuori”.
Il suo alter ego è il professor Mondrian Killory, tutta la lezione, dunque tutto il film, nasce dalla sua testa.
E Mondrian Killroy se la prende soprattutto con l’Inno alla Gioia.
“Schiller lo pensò come un inno massone: Beethoven lo coniugò col kantismo da birreria e col suo spirito illuminista, non ancora romantico.
Nel 2008 farne un inno religioso mi lascia allibito, mi disturba la sottolineatura dell’aspetto buonista della Nona usata mentre tiravano giù il Muro di Berlino, perché la usavano anche i nazisti”.
Non sembra neppure un film italiano, “Lezione 21”, con tutti quegli attori anglosassoni uno più bravo dell’altro.
“Si poteva fare anche con attori italiani, è stato il produttore Domenico Procacci a immaginarlo subito in inglese, anche per venderlo meglio all’estero.
Io, istintivamente, do quasi sempre ai miei personaggi nomi non italiani, forse per trovare una maggiore distanza.
All’inizio avevo addirittura pensato a usare attori dell’Est che parlassero un inglese sgrammaticato, come in una Torre di Babele”.
La sua letteratura ha qualcosa di apolide, l’hanno tradotto in quasi cinquanta lingue, coreano, israeliano, cinese mandarino, uzbeko. “All’università di Samarcanda ho scoperto che per tradurre “Oceano mare” erano quasi impazziti, perché in uzbeko non c’è il mare e non esistono le parole per dirlo.
Allora il traduttore aveva avuto quest’idea di trasformare il mare nel deserto, l’immenso deserto dell’Asia centrale e il libro aveva trovato una nuova vita.
Così in Cile e in Colombia mi hanno fatto capire il vero senso della guerra civile di cui avevo scritto in “Senza sangue”, perché quella storia è cucita nella loro vita e nessuno la capisce meglio di loro. Quando ho sentito leggere le mie parole a Santiago del Cile, quasi mi sono vergognato, di quelle parole, che erano la loro storia”.