direttore Paolo Di Maira

KVIFF/La formula felice di un Festival sostenibile.

Crystal Globe a “Father”

E’ il film bulgaro-greco “Father” di  Kristina Grozeva, e Petar Valchanov il vincitore del 54 Karlovy Vary International Film Festival, che si è concluso il 6 luglio scorso

Il premio speciale della giuria è andato al tedesco “Lara” di Jan-Ole Gerster, che ha ottenuto anche il premio della Giuria Ecumenica e, con la sua protagonista, Corinna Harfouch, quello come migliore attrice.
Miglior regista è Tim Mielants, già regista della terza stagione dei “Peaky Blinders” per  la sua opera prima “Patrick”

Milan Ondrík, protagonista maschile di “Let There Be Light” di Marko Skop è invece il miglior attore.
Il film, una co-produzione fra Repubblica Ceca e Slovacchia, ha ricevuto anche la menzione della Giuria Ecumenica, ed è l’unica presenza ceca in concorso: “manca ai nostri registi il coraggio di toccare certi temi politici, come invece riesce a fare “Let there be Light”, che, attraverso una storia personale, ci parla di xenofobia.” – commenta il direttore del festival, Karel Och.- Se i produttori cechi hanno fatto un percorso importante,  partecipano a coproduzioni con gli altri paesi e sono conosciuti nei grandi festival, lo stesso ancora non si può dire per i registi. E speriamo che i film della sezione Liberated, con cui ricordiamo il 30esimo anniversario della caduta del Comunismo, possano essere di stimolo e di ispirazione per i giovani.”  

Film che Och definisce “molto stilizzati, punk, ironici, che prendono in giro la società e la moralità dell’epoca in maniera coraggiosa”, girati fra l’’89 e il ’92, nei primi anni del cambiamento.

Gli anni della libertà, in cui si sono mossi i primi passi che hanno portato poi  alla creazione del mito  del Karlovy Vary Film Festival, con orde di ragazzi che si accampavano fuori dal Thermal Hotel, sede del festival, dormendo per terra, nei sacchi a pelo.  
Non senza passare, prima attraverso un momento di decadenza, in cui il festival aveva perso anche l’agognata classe A, che gli era stata strappata dal Festival di Praga. 
“Sono stati Jiří Bartoška (attore,attuale presidente del festival n.d.r.) e Eva Zaoralová (giornalista, già direttore, ora consulente artistico, n.d.r.)  a salvare il festival nel 1994” dice Och.

Eva Zaoralová

Racconta Eva Zaoralová: “dopo la sconfitta della primavera di Praga, per un anno o due si continuò a sperare in una certa libertà, speranza che però poi scomparve definitivamente: non si presentavano più film dell’ovest, ma solo film filosovietici. Dall’occidente arrivavano solo film impegnati, e la gente non veniva più alle proiezioni del concorso.”

Nel 1990 si è tenuta l’ultima edizione del festival organizzata dallo stato: “lo spirito era già quello della libertà, -prosegue Eva Zaoralová, – già era chiaro che il pubblico non avrebbe più voluto vedere film sovietici, ma aveva sete di novità esterne. Dopo un paio di anni di lotta con il festival di Praga, fra il 95 e il 96, in cui sono riuscita a convincere la FIAFF a riassegnarci la categoria A, pian piano il pubblico è tornato. Abbiamo capito che non potevamo perdere i film dell’Est, era il periodo, fra l’altro, in cui iniziavano ad arrivare quelli dei paesi che si erano staccati dai sovietici, come il Kazakistan, l’Uzbekistan …”

E’ così che è nata la sezione East of the West, e di cui Karel Och, successore della Zaoralová, ha fatto il secondo concorso, con opere prime o seconde in anteprima mondiale o internazionale. Quest’anno l’ha vinta il film russo “The Bull” di Boris Akopov, mentre l’ucraino “My thoughts are silent” di Antonio Lukich si è guadagnato il premio speciale della Giuria.  

Miglior film di East of the West per la giuria FEDEORA (Federation of Film Critics of Europe and the Mediterranean) è invece il film  turco, di Serhat Karaaslan, “Passed by Censorship” (coproduzione con Francia e Germania)
“Un film molto interessante, che forse avrei proposto anche per il concorso principale” commenta Zaoralová,  che ha sempre lavorato come critica di film, all’interno della storica rivista ceca Film A Doba, di cui oggi è editore. Fra gli altri film ‘del cuore’ di questa 54esima edizione, la giornalista cita il cinese “Mosaique Portrait” e l’argentino “El hombre del futuro” di Felipe Ríos, che definisce “il mio preferito fra quelli presentati da America Latina: ce n’erano moltissimi e tutti riusciti”(il film ha ottenuto la menzione speciale della Giuria alla protagonista, Antonia Giesen come ‘promising new talent’).

Nazareno Nicoletti con i produttori, Antonio Borreli ed Antonella Di Nocera

E fra i titoli italiani, cita “Giù dal vivo” di Nazareno Nicoletti, unico italiano in concorso, nella sezione Documentari: “mi è piaciuto molto questo viaggio nei questi bassifondi di Napoli, ci ho trovato una certa somiglianza visuale con il film di Garrone”.
Zaoralová è, fra l’altro, profonda conoscitrice del cinema italiano, nonché della lingua, che ha studiato anche all’Università degli Stranieri di Siena, ai tempi della Primavera di Praga, e di “Porcile” di Pasolini, con cui realizzò un’intervista pubblicata su Film Adoba proprio su questo film.  

Lo stesso si può dire per il direttore del Festival, Karel Och (entrambe le interviste sono state realizzate in italiano), che condivide il giudizio su “Giù dal vivo” e lo estende a tutti i titoli della selezione italiana: 
“Un bel gruppo di registi umili, molto concentrati sui loro film e rigorosi, che fanno film low budget molto interessanti. Sono queste le opere che tentiamo di sostenere, mettendo la passione come primo criterio di scelta, e sicuramente con un debole per il cinema un po’ alternativo. 
Non è facile avere le prime dei film italiani, anche per questo da quest’anno ci avvaliamo del prezioso aiuto di Lorenzo Esposito, nostro consulente internazionale, perché nonostante che da anni presentiamo film italiani, ancora molti produttori devono capire che tipo di film vogliamo, e ci sono molti film che in Italia non molto visti, che non hanno una grossa distribuzione dietro, ma che meritano supporto e attenzione.” 
Una selezione, quella italiana, di titoli apparentemente molto diversi (“Il traditore”, “IL Campione”; “Dafne”, “Tutto l’oro che c’è” “Giù dal vivo”, “Tommaso”, “What you gonna do when the world is on fire?”, “Ovunque proteggimi”), ma legati dal fatto di “essere realizzati da filmmakers seri e rigorosi e mettono il film prima di tutto”.

Federico Bondi, Marta Donzelli, Karel Och

Molto tenere le parole con cui Och ha presentato al pubblico “Dafne”, di Federico Bondi: “un film di ricerca con un grande cuore, che potrebbe sembrare triste, ma è uno dei più vivaci del programma.” E’ significativo, per Och, che abbia ottenuto il premio FIPRESCI  a Berlino: “mi è sembrata una cosa un po’ rivoluzionaria, visto che di solito i critici cercano cose molto più sperimentali”.
Certo più sperimentale è “Tutto l’oro che c’è” di Andrea Caccia, prodotto da Dugong Film, e  già vincitore dell’Eurimage Lab Award: “un cinema fatto con la cinepresa, fatto d’istinto, che in teoria vedremmo solo nei festival specializzati, alternativi, e che invece va sostenuto anche programmandolo in festival grandi, assieme a film più ‘convenzionali’, per far capire che c’è anche questo modo di fare cinema”.

Due i film italiani passati a Cannes, “Il traditore” di Bellocchio e “Tommaso” di Abel Ferrara, e sono moltissimi, come di consueto, i film che arrivano dalla Croisette: “abbiamo una settantina  di slot per il ‘best’ del festival. Al nostro pubblico chiaramente non importa se si tratta di anteprime o meno, e anche per molti registi, Karlovy Vary è il primo appuntamento in cui al film segue anche il Q&A, cosa che a Cannes non si fa.
Ingvar Eggert, protagonista del film islandese “White white day”, (passato alla Semaine de la Critique) ci ha detto che questo è il primo festival dove è venuto non essendo il film in concorso, e questo ci rende molto soddisfatti. E’ un equilibrio difficile da trovare, quello fra il pubblico e l’industria, che ovviamente vuole film nuovi.” 

Ma il punto forte di Karlovy Vary sta proprio nell’ essere un grandissimo festival fatto per il pubblico, che ha ‘rimediato’ agli accampamenti spontanei degli anni ’90 con una grossa area adibita a campeggio, con servizi igienici e navette organizzate dal festival per raggiungere le proiezioni). 
Un equilibrio comunque felicemente raggiunto, soprattutto con la sezione Industry Eastern Promises, che si afferma ogni anno di più come hub di produzione creativa sempre più interconnesso con altri mercati (il lancio di First Cut Lab + in partenrship con When East Meets West, vedi news), e fucina di talenti e opere che si fanno strada nei festival internazionali (fra i progetti dell’anno passato, “Normal” di Adele Tulli e “Monstri” di Marius Olteanu, presentati alla Berlinale -quest’ultimo ripassato poi da Karlovy Vary-, “Oleg”, presentato alla Quinzaine des Realisateurs a Cannes e poi riproposto a Karlovy Vary, e il documentario dell’ucraino Yuriy Shylov “Panorama-Projectionist” presentato in concorso a KVIFF).

Un equilibrio, d’altra parte, quello fra pubblico e industria, fra anteprime e riproposizioni, che ha molto a che vedere con il concetto di sostenibilità del cinema, uno degli argomenti più in voga all’interno delle sessioni industry.

Becki Probst (protagonista dell’incontro “Quo Vadis Cinema?”), ha affermato che c’è troppo contenuto in offerta, per cui presto ‘la natura dirà la sua’ e la gente si accorgerà che ‘less is more’ tornando al cinema. E ha riproposto la provocazione di un produttore tedesco: “pensiamo tutti che si producono troppi film, che quindi non hanno tempo di crescere e respirare, che subito vengono tolti dalla programmazione. Che accadrebbe se per un anno tagliassimo tutti i fonid pubblici e guardassimo quanti film vengono realizzati?”

In un panel dedicato ai temi più caldi dell’indsutria, Benedikt Erlingsson, regista islandese di “Woman at War”, (vincitore del SACD Screenwriting Award alla Settimana della Critica 2018, nonché del Lux Prize 2018 e del Lux Prize Audience Mention Award), ha definito il nostro tempo come “l’età dell’entertainemnt”: “l’uomo sta nascondendo la testa sotto la sabbia dell’entertainment, incapace di reagire all’incombente minaccia del clima. E la produzione cinematografica è parte del problema: oltre 1600 film vengono realizzati in Europa ogni anno, di cui sono 600 hanno una distribuzione fuori dal loro paese di origine.”
Meno film, e dunque anche meno film festivals, sostiene il regista, in modo da ridurre la quantità di viaggi arei che vengono effettuati per questo business.  O piantare un albero, per ogni festival che si visita!

Anche per Eva Zaoralová, i festival forse sono troppi oggi, e “c’è una continua ricerca da parte dei produttori di avere i film in concorso, per cui anche la Quinzaine, Un Certain Regard sono diventati concorsi. Quando ho iniziato a lavorarci io, e ci ho visto i primi film di Spike Lee, ad esempio, ci si faceva tutto un altro tipo di ricerca.”
Ma d’altra parte, “i festival sono il primo contatto del film con il pubblico critico, sarebbe difficile immaginare un mondo senza festival”.
Sicuramente impossibile, senza il Karlovy Vary International Film Festival.

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