
“I Do Not Care If We Go Down in History as Barbarians” del regista romeno Radu Jude (co-produzione fra Romania, Repubblica Ceca, Francia, Bulgaria, Germania) ha vinto il Karlovy Vary International Film Festival, conquistando il Grand Prix -Crystal Globe (e anche l’ Europa Cinemas Label Award).
Il film affronta la questione della negazione dell’Olocausto rumeno, attraverso la messa in scena da parte di una regista teatrale dei giorni nostri, del massacro di civili ebrei perpetrato dall’esercito romeno sul fronte ucraino ad Odessa nel 1941.
“Un film importante, che indaga il rapporto di un popolo verso la propria storia” lo ha definito il direttore del KVIFF, Karel Och, individuando un parallelo con la regione dei Sudeti, dove Karlovy Vary si trova, storicamente co-abitata da tedeschi e cechi in convivenza pacifica finché Hitler non decise di invadere la Cecoslovacchia partendo proprio da lì.
“Subito dopo la guerra i cechi sono tornati qui e si sono ripresi i territori dai tedeschi che avevano perso. Questo è stato anche uno dei motivi per cui il festival è stato messo qua, nel 1946. Oltre alla piacevole cornice di una città balneare con la sua atmosfera fiabesca, anche un gesto politico”, spiega Och, in questa 53esima edizione che ha salutato anche il centenario della fondazione della Cecoslaovacchia (poi pacificamente scissa nel 1993).
“Se in un film ben riuscito c’è anche una componente politica forte siamo molto contenti, anche se la prima cosa a cui guardiamo è certamente la qualità artistica.”
Qualità che a Karovy Vary è sinonimo di diversità e indipendenza. Cosa vuol dire per voi essere indipendenti?
Indipendente è una parola che oggi si usa un po’ a caso, ma che non può esistere da sola, se non si specifica da cosa si è indipendenti.
Una parola che ha avuto un significato chiaro e puro negli anni 90: indipendenti dai grandi studios, da un establishement.
Poi è cambiato tutto, anche gli studios hanno creato divisioni indipendenti, come Paramount, Warner Independent, Fox Searchlight. Anche in Europa è difficile perché ci sono tante istituzioni che appartengono allo stato che sostengono i film… Vengono prodotti film che non hanno grandi budget, e danno quindi la sensazione di essere indipendenti, ma se poi guardi chi li ha finanziati trovi sempre un ‘establishment’.
E’ nata quindi una nuova concezione di indipendente, che è più legata alla natura del film che alle modalità di finanziamento. Film low budget, piccoli, particolari… tanto che gli americani chiamano indipendenti i film stranieri!
Eppure è negli Stati Uniti che si trova, per voi, uno degli esempi più alti del cinema indipendente: la Austin Film Society, creata nel 1985 da Richard Linklater, e a cui quest’anno avete dedicato un omaggio…
A 30 anni dalla sua nascita, la Austin Film Society conserva ancora questa purezza di approccio su come fare i film, come percepirli, e sta sostenendo molto gli autori locali.
Noi andiamo al Sundance Film Festival da 12 anni e ogni volta troviamo una decina di film sostenuti o co-prodotti dalla Austin Film Society. Abbiamo pensato che era il momento di far vedere al nostro pubblico che i film americani non nascono solo a New York o Los Angeles.
Inoltre, continuiamo a presentare le società di produzione indipendenti più importanti, come il collettivo Borderline Films, autori di film come “Martha Marcy My Marlene”, super indipendenti ma che poi arrivano a Cannes, Sundance… O come Anonymous Content, produttori pubblicità di alto livello fatta da autori dche però poi hanno avuto ambizioni cinematografiche: qui è nato “True Detective”, i film di Gondry, di David Fincher…
E’ questo spirito libero che ricercate nella selezione delle varie sezioni del festival?
Sì, ci facciamo guidare da questo criterio: film low budget, che siano imprevedibili, provocatori, un po’ radicali, scatenati…
Come ad esempio il film austriaco in concorso “To the night” co-prodotto da Stati Uniti, con protagonista Caleb Landry Jones, molto dark e dirompente. Oppure il film ceco in concorso “Domestik”, visivamente molto disturbante, anche a livello sonoro, molto rigoroso e radicale. Un film che può viaggiare ed essere sicuramente interessante per molti festival.
Cerchiamo un linguaggio diverso, che crei una comunicazione visiva molto forte con il pubblico.
La presenza di film italiani è elevata, ma non ci sono titoli nuovi, a parte “History of Love” co-produzione fra Italia, Slovenia e Norvegia (che, fra l’altro, ha conquistato la menzione speciale della Giuria assieme a “Jumpman” di Ivan I. Tverdovskiy)…
Noi continuiamo ad andare a Roma a vedere i film nuovi a Cinecittà, con cui abbiamo una collaborazione molto buona, ma è anche vero che l’offerta è soggetta al calendario: siamo agli inizi di luglio, tutti aspettano Venezia, c’è Locarno…
Non è facile avere qualcosa di nuovo dall’Italia, anche perché cerchiamo le stesse cose: ci piace molto Pietro Marcello ad esempio, e siamo stati molto felici, quattro anni fa, che gli altri festival non considerarono molto “Antonia” di Luca Guadagnino, che qui ha funzionato molto bene.
Adesso grazie al film sloveno in concorso, co-prodotto dall’Italia, abbiamo portato delle produttrici italiane qua e speriamo che l’esperienza sia stata buona…
L’ Italia poi è forte nella sezione dei progetti in sviluppo Eastern Promises, dove, per la seconda volta, ha conquistato il Eurimages Lab Project Award (con “Normal” di Adele Tulli, vedi news): da tanti anni so che c’è in Italia una corrente molto forte di film underground, che non vengono cioè distribuiti nei canali consueti, ma in altri circuiti…
Vi state anche aprendo a nuovi territori, ancora più a Est (il Medio Oriente) ma anche molto a Ovest, verso l’Argentina, la Repubblica Dominicana…
Sì, ’idea è quella di cercare film fuori dall’Europa: come dicevo prima, il fatto che i film vengano finanziati da molte istituzioni, e che ci siano così tanti enti che decidono sul loro futuro, è una risorsa preziosa e un aiuto indispensabile, ma a volte si sente anche la mancanza di qualcosa di diverso, di più spontaneo …
Aperture che, tra l’altro, hanno colto nel segno: il film argentino “Sueño Florianópolis” di Ana Katz (co-produzione con Francia e Brasile) ha vinto il Premio Speciale della Giuria, il premio per la Migliore Attrice (a Mercedes Morán) e il FIPRESCI Award. Inoltre, il progetto “All this victory” del regista libanese Ahmad Ghossein (co-produzione fra Libano, Francia e Germania) si è aggiudicato il Work in Progress Award di 100 mila euro, proprio nel primo anno in cui questa sezione dedicata ai progetti di lungometraggi in post-produzione si è aperta ai paesi mediorientali…
Sì, questo, credo, ci aiuterà molto per l’anno prossimo: abbiamo scoperto film molto forti nei paesi arabi e adesso abbiamo una collaboratrice che fa la consulente. Contemporaneamente sta aumentando la presenza dell’industria al festival. (Sono stati 1373 i professionisti accreditati di quest’anno, di cui 545 provenienti dall’estero, n.d.r.)
Assieme alle nuove aperture territoriali, e al rafforzamento dell’industry, c’è poi l novità del sostegno ai progetti in sviluppo attraverso la partnership con Midpoint, in collaborazione con When East meets West ed il Trieste Film Festival (vedi news)…
L’importanza di una sceneggiatura forte diventa cruciale nel caso dei film low budget che predilegiamo.
Storicamente ci orientiamo anche a film quasi finiti, ma fino ad ora non avevamo mai coperto le fasi di sviluppo, e siamo molto contenti di Midpoint, che è andato molto bene. Anche perché abbiamo speso gli ultimi sei, sette anni mandando un messaggio al mondo professionale sul tipo di film che stiamo cercando, e ora rafforziamo le strategie per ottenerli.
E’ una ‘caccia’ e bisogna iniziare sempre prima, essendo umili e andando a incontrare i produttori, gli sceneggiatori e i registi già mentre scrivono la sceneggiatura, in modo da creare una relazione. Per questo seguiamo sempre con maggiore attenzione gli work in progress che si trovano nelle sezioni Industry dei Festival.
Gli altri film premiati del KVIFF sono stati: l’israeliano “Redemption” di Joseph Madmony, Premio della Giuria Ecumenica (con menzioni speciali a “Winter Flies” di Olmo Omerzu, co-produzione fra Repubblica Ceca, Slovenia, Polonia, Slovacchia, e a “Miriam lies” di Natalia Cabral, Oriol Estrada, co-produzione fra Spagna e Repubblica Dominicana). Olmo Omerzu ha vinto poi il premio come miglior regista, mentre miglior attore è Moshe Folkenflik, per il suo ruolo in “Redemption”.
Il miglior documentario è “Putin’s Witnesses” di Vitaly Mansky (Latvia, Svizzera, Repubblica Ceca), mentre il documentario Premio speciale della Giuria è “Walden” di Daniel Zimmermann (Svizzera, Austria),
“Suleiman Mountain” di Elizaveta Stishova (Kyrgyzstan, Russia) ha conquistato sia il Grand Prix della sezione East of the West, sia il premio della Federazione dei critici cinematografici dell’Europa e del Mediterraneo FEDEORA.
Il Premio Speciale della Giuria di East of the West è andato invece all’ungherese “Blossom Valley” di László Csuja.