di Adriana Marmiroli
Autori della ricerca che mette a nudo i dati della delocalizzazione delle nostre produzioni, chiamati in causa a più riprese dai produttori, non potevamo non sentire i sindacati.
Corrado Volpicelli è l’autore della ricerca che mette nero su bianco quanto stia rischiando di impoverirsi la nostra industria audiovisiva e membro dell’ufficio sindacale troupe della Cgil-Slc (Sindacato Lavoratori Comunicazione).
Che comincia mettendo subito in chiaro alcuni elementi (e smantellando pregiudizi): delocalizza più la fiction del cinema, più Rai di Mediaset («che comincia solo ora e ha percentuali ben più ridotte») e comunque ne partecipa, fin dai suoi primi saggi “made in Italy”, Sky (“Donne assassine”).
Con buona pace di chi pensa che i soldi pubblici sarebbe bene che restassero in Italia.
Tra le fiction più recenti (quelle che hanno ribaltato le cifre tra girato Italia e girato estero del 2010) cita qualche titolo: “Scusate il disturbo 2”, “Il commissario Nardone”, “Paura d’amare”, “Zodiaco 2”, “Terra ribelle”, e le imminenti “Tiberio Mitri-Un pugno e un bacio”, “Il generale Della Rovere”, “Cerchi nell’acqua”: spaziano tutte da Argentina a Serbia, con una puntata in Lituania, senza vere motivazioni che non siano il risparmio economico: minori costi di personale, che viene ingaggiato sul posto («Si arriva a set con 7 o 8 italiani in tutto nella troupe»), e «contrazione della tempistica lavorativa».
A volte non c’è neppure la necessità di trovare gli esatti sfondi per certe foto.
Uno dei casi più eclatanti è quello di “Barbarossa”: tutto girato in Romania, con pochissimo personale italiano (in lingua inglese aggiungiamo noi, e con interpreti per lo più stranieri), pur avendo ottenuto non solo il finanziamento del coproduttore Rai ma persino fondi regionali e del Ministero dei Beni Culturali.
«E adesso il regista Martinelli si appresta a bissare con un nuovo kolossal».
Di quanto stava avvenendo, al sindacato se ne sono accorti solo pochi mesi fa, a fine anno.
E mai si sarebbero aspettati che la situazione potesse precipitare così rapidamente.
«Il fenomeno direi che è esploso in questo 2010». Non è stagionale, continua, cresce.
Rispetto all’indagine svolta, le cifre sono già cambiate: in peggio. «Questo che abbiamo reso noto a maggio è un nostro primo tentativo di fare un’analisi del fenomeno e un calcolo delle perdite».
Nega che possa trattarsi di un problema accresciuto dalla mancanza di flessibilità dei lavoratori sul set, o dalla loro poca professionalità e scarsa affezione al lavoro, o da rigidità contrattuali.
Anzi.
«Negli ultimi anni c’è stata una contrazione retributiva: non si ottengono più le stesse cifre che in passato».
Quanto alla composizione numerica di una troupe, deroghe sono sempre possibili, rivolgendosi alla commissione paritetica.
Inoltre «noi siamo ancora al di fuori delle norme previste dalla Comunità Europea circa la quantificazione degli orari limite: noi siamo oltre le 22 ore a settimana».
E se fosse scarsa capacità di organizzare il lavoro?
Comunque c’è un contratto da rinnovare: il tavolo delle trattative è già aperto.
In quella sede – auspica Volpicelli – tutte le problematiche esistenti verranno discusse.
Anche quella dell’adeguamento alle norme europee sull’orario di lavoro. Anche quella relativa alla delocalizzazione.
Anche quella sulla nazionalità di una produzione.
«Come definire cosa è prodotto italiano».
Problema non secondario se si pensa che, sempre la CEE, prevede per i network televisivi, quantitativi minimi e ben definiti di produzioni europee e nazionali da mettere in onda sul totale dell’emissione.