Interrogato sul significato del titolo “La Dolce vita”, Fellini diceva che era suggerito dall’innamoramento di un giovane provinciale per un ritmo di vita trasognato, adolescenziale.
Ma in tutti questi anni “La dolce vita” “” ed è stato ampiamente documentato dal convegno sui cinquant’anni della Dolce Vita organizzato dalla Fondazione Fellini a Rimini – è diventato una categoria mentale, una visione del mondo.
Per il mondo intero ha identificato, e continua ancora oggi a identificare, lo stile di vita – il saper vivere – italiano.
Così è stato in America dove “” ha documentato Ellen M. Harrington, dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences – la Astor Pictures si aggiudicò subito i diritti di distribuzione de “La dolce vita” per la ragguardevole cifra di 500 mila dollari.
L’ostacolo della potente associazione cattolica Legion of Decency, che voleva impedirne l’uscita, fu aggirato decidendo di dare il film con sottotitoli, e dunque escludendo di fatto ( e “salvando”) la massa del pubblico.
Ma ugualmente, i turisti americani a Roma non buttavano più le monetine nella Fontana di Trevi, ma ci si buttavano, imitando Marcello e Anita.
E’ certo che, con il suo potere evocativo, il film ha creato nel tempo un proprio pubblico che è molto più numeroso di quello che lo ha effettivamente visto.
Della “La douceur de vivre”, titolo che evocava la talleyrandiana “dolcezza di vivere prima della rivoluzione”, in Francia se ne parlava molto, molti mesi prima che il film trionfasse, nel maggio 1960, al festival di Cannes: a Rimini il critico Jean Gili ha raccontato il grande spazio di cui il film godeva sulla stampa francese fin dal 1959.
Aveva creato una attesa così esagerata che all’indomani della conquista della Palma d’Oro Le Monde uscì sentenziando: “La dolce vita ha deluso”.
Strana la vita di questo film, un’esistenza dilatata, più che negata, dalla censura.
Così nel Portogallo di Salazar, dove passò, con tanti tagli, solo nel 1970.
Poi, arrivò la democrazia e molto tempo dopo il film uscì in versione integrale.
Fu un flop – secondo la ricostruzione dello studioso portoghese Joao Benard da Costa – perché ormai era troppo lontano dalla sensibilità storica e sociale in cui era stato concepito.
Stesso destino nella Spagna franchista: importato nel ’63 dalla Cinesco, il film fu bloccato dalla censura.
Il distributore ci riprovò più volte, e solo nel ’76 “La dolce vita” riuscì ad approdare in sala, quando ormai non se ne percepiva più la carica eversiva.
Eppure, ha raccontato lo studioso di cinema spagnolo Roman Gubern nel convegno, il film fu definito dalla cattolicissima rivista Film Ideal ” bella mostruosità “, tradendo l’amirazione estetica per l’opera di Fellini .
Forse il difficile rapporto tra “La dolce vita” i cattolici e le loro gerarchie, meriterebbe un convegno a parte: a Rimini padre Virgilio Fantuzzi, critico di Civiltà Cattolica, ne ha dato un assaggio, ricordando l’iniziale apertura del Cardinal Siri ( che fece esclamare al gesuita Padre Angelo Favero “Il film ha su di sé il sigillo di una porpora”) subito rientrata nella bocciatura decretata dal futuro Papa Montini.
Il film non piacque neppure a Visconti ( disse: “quelli sono i nobili visti dal mio cameriere”) e a De Sica, che lo definì “una cafonata, il sogno di un provinciale”.
Ma a Rimini si è avverata la profezia del critico Giulio Cesare Castello, opportunamente ricordata, che all’epoca scrisse : fra cinquant’anni si parlerà di questo film come di un classico.