di Marcello Mustilli*
Si è parlato spesso, nell’anno 2009 e nei mesi trascorsi del 2010, del cosiddetto “equo compenso” da pagarsi, agli autori di opere cinematografiche e “assimilate”, da parte delle emittenti televisive. L’equo compenso infatti (di seguito per brevità “e.c.”) è stato al centro di un intenso dibattito avente ad oggetto il pendente rinnovo dei contratti tra le emittenti televisive e la S.I.A.E. che ne determinano la misura, scaduti da oltre un anno; dibattito che ha visto protagoniste, oltre a S.I.A.E. e le emittenti, le principali associazioni degli autori, le quali, benché non siano formalmente parte degli accordi, rivendicano il diritto di concertarne i contenuti con S.I.A.E..
Senza addentrarsi nel merito nel dibattito, si cercherà qui di illustrare sinteticamente cosa sia e come funzioni l’istituto dell’equo compenso, evidenziandone gli essenziali elementi ed alcune criticità di ordine legale.
L’equo compenso è una remunerazione spettante per legge a talune categorie di soggetti, in presenza di precisi presupposti.
Precisamente, in base all’articolo 46 bis della legge 22 aprile 1941, n. 633 (“Legge Autore”), si desumono (schematizzando) i seguenti elementi:
1) legittimati a percepire l’e.c. sono gli autori e gli adattatori di “opere cinematografiche e assimilate”.
Al riguardo si noti che, mentre precise formalità legali (denunzia di inizio lavorazione e iscrizione al Pubblico Registro Cinematografico) identificano le opere “cinematografiche”, altrettanto chiaro non è per legge quando si sia in presenza di un'”opera assimilata”: se nessuno nega ormai che categorie di opere affermate quali, ad esempio, le fiction TV meritino tale qualifica, maggiori problemi sorgono per opere di più recente affermazione, come i documentari.
Alcune emittenti sostengono ad esempio che ai documentari di archivio o di taglio giornalistico, in virtù di tali caratteri, non vada riconosciuta la natura di “opere” ai sensi della Legge Autore.
C’è chi “” e io sono tra questi – dissente da tale tesi, ritenendo che, per legge, requisito necessario e sufficiente affinché possa parlarsi di opera “assimilata” sia la presenza di una autonomia narrativaespressiva risultante dalla giustapposizione di immagini (e suoni), e non siano legittime discriminazioni basate sulla motivazione che le immagini in questione provengano da archivi e/o il taglio dell’opera sia giornalistico;
2) obbligati a pagare l’e.c. sono tutti gli “organismi di emissione”, ovvero le emittenti televisive operanti via etere, via cavo o via satellite;
3) il pagamento è dovuto solo a quegli autori che abbiamo ceduto al produttore il “diritto di diffusione” dell’opera.
Tale condizione evidenzia la finalità di ricompensare gli autori, per gli sfruttamenti che nel tempo vengano fatti della loro opera, in considerazione del fatto che essi, avendo ceduto al produttore tutti i diritti di sfruttamento, non possono più arrichirsene per vie contrattuali. In pratica: o il contratto tra autore e produttore evidenzia in termini chiari la cessione dei diritti di diffusione al produttore, oppure l’e.c. non potrà essere riscosso.
Ricorrendo i presupposti sopra indicati, “spetta” per legge il compenso; il quale “” specifica la norma “” è “non rinunziabile”: se pertanto a un autore si richiedesse di dichiarare in un contratto che l’e.c. “non gli spetta”, o di rinunziarvi, purché siano soddisfatti i presupposti anzidetti, tale dichiarazione sarebbe invalida.
Ma a quanto ammonta l’e.c.?
E’ questo un punto delicato, specie in tempi di “vacche magre”, di fatti al centro del dibattito odierno.
Gli accordi sinora stipulati da S.I.A.E. con le emittenti si sono basati su due sistemi alternativi: tariffe al minuto variabili a seconda delle categorie di opere e fasce orarie di trasmissione (così gli accordi con Rai e RTI), oppure forfait (così gli accordi con molti canali satellitari).
Il primo criterio è giudicato più remunerativo dagli autori (anche se poi al suo interno, rientrare in una categoria piuttosto che un’altra, può determinare differenze di pagamento sostanziali); per il suo mantenimento pertanto, e per un aumento delle tariffe, spingono oggi gli autori.
Tale ipotesi incontra l’opposizione delle emittenti; da ciò, oltre che da altri fattori, scaturisce una posizione di stallo nelle trattative, che perdura ormai da diversi mesi.
Il rimedio ultimo previsto dalla normativa per superare tale stallo è alquanto datato: la nomina di un collegio arbitrale con la procedura prevista dall’art. 4 del Decreto Luogotenenziale 20 luglio 1945, n. 440, il quale prevede un arbitro nominato dall’emittente, uno da SIAE ed uno, con funzioni di Presidente, dai due arbitri così nominati oppure, se non c’è accordo tra gli arbitri, da parte dell’U.P.L.A.S. (Ufficio Proprietà Letteraria Artistica e Scientifica).
Non esistendo più oggi l’U.P.L.A.S., è opinione condivisa che le sue funzioni debbano ritenersi assorbite dalla Presidenza del Consiglio.
Come premesso, non è questa la sede per entrare nel merito del dibattito in corso sui rinnovi dei contratti; appare evidente peraltro che, data la complessità tecnica e delicatezza della materia, a paragone della via arbitrale descritta, sarebbe auspicabile che a decidere quale sia un compenso “equo”, siano le parti interessate; che quindi si raggiunga un accordo, seppur di non completa soddisfazione, come d’altronde è sempre qualsiasi accordo frutto di negoziazione.
* Avvocato esperto di diritto d’autore e socio dello Studio legale Bellettini Lassarechi Mustilli: m.mustilli@blmius.com