di Alberto Pasquale
C’ è una specie di paradosso attorno alla recente introduzione del tax credit a favore del cinema in Italia: da una parte si dà il benvenuto alle numerose produzioni statunitensi che, attratte dall’incentivo fiscale, arrivano sul nostro territorio e dall’altra molti set di opere italiane (soprattutto fiction televisive) vanno all’estero, attratte da una serie di benefici, tra cui i crediti d’imposta messi in atto da paesi stranieri. Diverse fonti attestano che, a partire da giugno 2008, il mondo del cinema italiano è ricorso a crediti d’imposta per 114 film chiedendo benefici per circa 48 milioni di euro.
Grazie all’incentivo fiscale, solo nel 2009 sono giunte in Italia sette importanti produzioni straniere; di queste, due tra le maggiori produzioni americane hanno speso da sole più di 30 milioni di euro.
In totale, per i sette film stranieri, si contano 217 giornate di riprese in Italia. In contrapposizione a questi dati, un recente studio condotto dalla CGIL ha calcolato che nel periodo 1 gennaio 2008 “” 30 aprile 2010 in Italia sono stati “persi” più di 76 milioni di euro, mancato introito causato dalle delocalizzazioni di alcune produzioni italiane.
LE “RUNAWAY PRODUCTIONS”
L’effettuazione delle riprese all’estero, con le inevitabili conseguenze negative in termini di occupazione, è un fenomeno studiato da molti anni negli Stati Uniti, dove è definita «runaway production» (letteralmente «produzione fuggiasca»).
Come è noto, negli USA il centro tradizionale della produzione è Los Angeles (a sua volta destinazione delle runaway productions provenienti da New York, agli inizi del Novecento) dove le lamentele relative alla “fuga delle produzioni” sono di vecchia data e ricorrenti nel tempo.
Le ultime proteste del settore si sono manifestate sia negli anni Ottanta che alla metà degli anni Novanta del secolo scorso con caratteristiche differenti.
Possiamo infatti tenere distinti i due periodi, all’interno dei quali lo stesso fenomeno si presenta in contesti e modalità molto difformi.
Se infatti negli anni ’80 la delocalizzazione delle riprese faceva riferimento soprattutto a strategie di differenziazione del prodotto (riprese in esterni non riproducibili negli studios) e coinvolgeva manodopera scarsamente qualificata, alla fine degli anni ’90 la strategia è piuttosto di contenimento dei costi e coinvolge non solo manodopera qualificata, ma anche il ricorso a infrastrutture (compresi teatri di posa e studi di post-produzione) e incentivi fiscali predisposti da governi nazionali e locali in più parti del mondo.
E’ in atto una forte concorrenza tra nazioni e tra regioni all’interno delle nazioni, per attrarre investimenti da parte di società di produzione cinematografica e televisiva, alle quali si offrono non solo servizi di base ma anche teatri di posa, manodopera specializzata, incentivi fiscali e, spesso anche sussidi diretti.
Il rischio però è che il vero beneficiario a lungo andare sia solo il produttore (spesso una grande multinazionale dell’entertainment) e non il territorio che riceve l’investimento.
Occorre dunque vigilare attentamente su queste dinamiche.
Occorre sottolineare che, in generale, il territorio che perde produzioni subisce una contrazione dei lavoratori impiegati in quel settore e perde competitività strutturale, giacché se prima delocalizzare significava solo dare all’esterno funzioni semplici (unskilled), attualmente sidelocalizzano funzioni importanti che vanno sicuramente ad incidere negativamente sul sistema economico e sociale.
Se è comunque difficile creare nuovo lavoro per lavoratori non professionalizzati ma comunque flessibili, è ancora più complicato trovarne per professionisti laureati o iper-specializzati, sicuramente meno flessibili.
A lungo andare anche il tessuto produttivo si modifica, dato che una singola produzione necessita anche di uno sfondo di subforniture che, ovviamente, perdono di ragione economica ad esistere, cioè il cosiddetto “indotto” tende a scomparire.
Diversa è la situazione per il paese che riceve la delocalizzazione, dato che ottiene posti di lavoro, investimenti e strutture che creano un aumento di ricchezza in quel territorio.
Non si creano però i presupposti per uno sviluppo generalizzato, perché gli investimenti, e quindi i ritorni economici, sono veicolati e riscossi dalle aziende nel paese che delocalizza, e sono comunque spesso legati ad una forzatura legale e finanziaria che, qualora avesse termine, riporterebbe la situazione ad un livello simile, se non peggiore, al presistente.
LE DELOCALIZZAZIONI ITALIANE
Da un colloquio con Andrea Zoso, Amministratore Delegato della DAP, De Angelis Group, sono emersi alcuni elementi significativi di questo fenomeno, in particolare per quanto riguarda le imprese italiane.
In estrema sintesi, la delocalizzazione al di fuori dei confini nazionali avviene per i seguenti motivi:
1) minore costo a parità di location e di competenze delle maestranze; 2) locations più adatte;
3) presenza di incentivi fiscali e/o finanziari.
I tre motivi possono sussistere disgiuntamente ma se sono tutti presenti rendono la de-localizzazione ancora più importante.
Sui costi si può risparmiare dal 20% al 50% al netto degli incentivi rispetto ai costi italiani.
Costi che riguardano le maestranze, le locations, gli studios, le comparse etc.
Gli incentivi vengono calcolati di solito su quanto viene speso in loco e si aggirano normalmente da un 15% ad un 30% dello speso per poi arrivare al caso canadese che offre in determinate condizioni un 50% sempre dello speso.
I paesi nei quali si delocalizza di più sono attualmente due: Argentina e Serbia.
La prima ha il vantaggio di avere costi di circa il 50% più bassi rispetto all’Italia e avere locations e “figurazioni” simili alle esigenze di produzioni ambientate in Italia (la fisionomia degli argentini è simile a quella italiana).
Tuttavia si tratta di una destinazione molto lontana, quindi è necessario avere gli attori presenti anche quando non si gira, e le condizioni fiscali sono onerose.
Ad esempio, l’Iva sui costi non è recuperabile.
La Serbia, per contro, offre i suoi servizi a costi di circa il 35% in meno dell’Italia, ma è a un’ora di aereo da Roma o Milano.
E’ quindi possibile rientrare nei fine settimana e andare e venire sul set anche in giornata.
Inoltre la Serbia offre un incentivo fiscale pari al 15% dello speso e che, pur se non ancora approvato, si applica a tutte le produzioni, cinema e TV.
In questo caso però le fisionomie e le locations poco si adattano a serie o produzioni interamente ambientate in Italia.
La delocalizzazione non avviene necessariamente per singole fasi. Teoricamente l’intera produzione può essere delocalizzata, dal primo giorno di riprese all’ultimo, includendo ovviamente anchela preparazione.
In realtà poi si girano prevalentemente le scene e i capitoli dove la location non italiana è indispensabile, vuoi per fattori climatici (ad esempio riprese a novembre per film ambienti in estate), vuoi per ambientazione (un deserto”¦) o per ultimo per le figurazione (etnie non italiane).
L’unica fase che difficilmente può essere delocalizzata è la post-produzione, in quanto essendo gli attori principali italiani, è conveniente doppiare e finalizzare il film in Italia.
Ci sono vantaggi anche nel caso di delocalizzazioni “interne”, cioè in località diverse da Roma.
Spesso in regioni diverse dal Lazio e in città diverse da Roma ci si trova davanti a condizioni migliori.
In primo luogo, c’è la possibilità di girare il sabato, che a Roma è molto difficile.
Inoltre le caratteristiche della capitale spesso impediscono un ritmo serrato (a causa del traffico), e ci sono alti costi di locations e alberghi.
Inoltre sempre più regioni quali Piemonte, Toscana, Friuli e Sicilia offrono incentivi molto interessanti, che hanno come risultato di compensare completamente i costi “fuori sede” quali “per diem”, trasporti ed alloggi e spesso contribuiscono fattivamente a finanziare il budget sempre meno coperto dai co-produttori, distributori o reti TV. Sicuramente una modifica del contratto di lavoro per le riprese all’interno di Roma sarebbe indispensabile, non si comprende infatti perchè gli straordinari, le “golden hours” e le riprese durante il sabato siano più difficili da ottenere rispetto alle altre regioni. Questo poteva avere un senso qualche tempo fa, ma ora piazze come Torino e altre nella penisola sono assolutamente alternative a Roma, e oramai si tratta sempre più di competere per attrarre o mantenere le produzioni sul territorio.
La manodopera specializzata all’estero può essere più o meno valida. Per esempio, in Serbia pur con il problema della lingua le figure professionali sono di professionalità quasi pari a quelle italiane.
In Argentina esiste il vantaggio di una lingua “facile” ma le maestranze sono meno “scaltre” rispetto a quelle italiane e vanno seguite di più. Negli USA, pur in presenza di professionalità altissime, la struttura di lavoro è diversa.
Ci sono troupe molto più corpose e i compiti sono molto definiti, senza lasciare spazio all’inventiva, classica di una produzione italiana. Normalmente dall’Italia si portano tutti i capi reparto, qualche assistente, l’amministratore di set, il produttore esecutivo, l’organizzatore, una segretaria di produzione e l’assistente alla regia. Questo è il minimo, anche se poi occorre un accordo a seconda del film e della locations.
Ci sono dei capi reparto (scenografia o direttori della fotografia) esteri ottimi a disposizione del regista e che possono dare dei vantaggi rispetto alle maestranze italiane.
Spesso vi è una relazione tra delocalizzazione e coproduzione.
In altri termini, il paese ospitante acquisisce anche dei diritti sull’opera. E’ infatti del tutto normale che che un co-produttore estero insista affinché una parte del film venga girata nel suo paese, perché ciò gli consente di accedere a dei sussidi interni e quindi a forme di finanziamento del budget.
In alcuni paesi ciò è richiesto dall’obbligo delle quote di trasmissione e consente di distribuire più facilmente il prodotto al cinema o a venderlo alla TV.
Un co-produttore estero potrebbe anche non esserci.
Paesi come l’Argentina o la Serbia contributirebbero molto (troppo) poco al budget.
In altri paesi invece, come gli USA, se le sceneggiature sono adatte e il cast artistico opportuno, la vendita è più semplice.
“Doc West”, diretto e interpretato da Terence Hill e prodotto da DAP e RTI, è stato venduto negli USA (caso raro) e su questo ha contribuito decisamente il fatto di essere stato girato interamente nel New Mexico con maestranze e attori americani.
Alle obiezioni in merito alla delocalizzazione di fiction realizzate con il finanziamento Rai, che quindi dirottano risorse pubbliche verso lavoratori stranieri, Zoso risponde che «sicuramente il produttore per opere filmiche Rai dovrebbe favorire la produzione italiana, questo però cozza contro due elementi fondamentali: le ambientazioni che sono necessarie all’estero (per esempio scene di guerra, Milano del 1940 che non esiste in Italia, ecc.) e il fatto che con gli apporti di Rai sempre più al ribasso, le uniche strade sono le coproduzioni estere e la delocalizzazione per ridurre i costi.
In entrambi i casi la delocalizzazione estera risulta indispensabile».
La delocalizzazione può anche funzionare a vantaggio dell’Italia, nel senso di attrarre nel nostro paese le produzioni straniere.
In piena globalizzazione, nolenti o volenti, l’unico modo di supportare l’industria filmica italiana è attrarre produzioni estere.
E su questo la politica sta adottando misure adatte: tax credit “interno” e per le produzioni estere, tax credit “esterno”, entrambi per i film lungometraggio.
Per il prodotto televisivo servono invece incentivi ad hoc per le produzioni estere interessate a girare nel territorio Italiano. Incentivi che un recente studio della UCLA (University of California Los Angeles) ha stabilito per ogni euro investito, un ritorno di circa il 200% – 300% per lo stato erogatore.
La fortuna italiana sta nelle città d’arte e nei paesaggi, luoghi unici che basta saper presentare come ambienti semplici e privi di ostacoli (leggi: burocrazia) che purtroppo restano un connotato negativo di fondo del nostro paese.
Resta in ogni caso fondamentale vigilare su questi flussi, per non correre il rischio di trasferire risorse non verso i naturali destinatari (i territori da sviluppare e sostenere strutturalmente e i lavoratori specializzati italiani) ma verso entità sopranazionali che dalla concorrenza tra le varie strutture agevolanti sparse nel mondo traggono il maggiore beneficio.