Il mio primo incontro con Cinecittà risale a molto tempo fa, quando avevo appena 17 anni. Allora frequentavo l’Accademia di Belle Arti e il mio sogno era già quello di fare lo scenografo per il cinema. Per me, che venivo dalla provincia, entrare in quel luogo sacro era come sognare ad occhi aperti. Da quel momento il fascino di quelle mura non mi ha più lasciato.
Mi ricordo che allora Cinecittà era un posto isolato, nel bel mezzo della campagna. Il tram arrivava davanti agli stabilimenti, faceva una curva su se stesso e poi ripartiva da lì. In questi anni è cambiato il paesaggio intorno, sono cresciuti interi quartieri, ma gli studi è come se fossero rimasti intatti, impenetrabili. Nel ’69, chiusa l’esperienza di “Medea” con Pier Paolo Pasolini, che avevo firmato come scenografo dopo un lungo periodo di assistentato, Federico Fellini mi propose di collaborare con il grande Danilo Donati nelle scenografie di “Roma”. Avevo fatto l’aiuto nel “Fellini – Satyricon” e il mio lavoro gli era piaciuto. Quella volta non me la sentii di accettare. Ricordo che gli dissi: mi richiami fra dieci anni, perché la mia carriera è appena cominciata. Promessa mantenuta, perché dieci anni (e diversi film) dopo arrivò, puntuale, la chiamata di Fellini.
Ci incontrammo sotto a un lampione di notte, proprio a Cinecittà , e lui mi chiese di lavorare al suo prossimo film. Era “Prova d’orchestra” e sarebbe stato l’inizio di un sodalizio lungo oltre un decennio e cinque film.
Un sodalizio legato indissolubilmente agli studi di Via Tuscolana. Le mura, i teatri di Cinecittà hanno avuto una parte importantissima nella storia di Fellini. Sono stati il luogo deputato della rappresentazione del suo mondo interiore. Federico amava ricostruire tutto in studio, perché la sua era un tipo di visione molto personale, una dimensione sognata, del tutto lontana dalle misure reali. Però ogni tanto dicevamo: andiamo a fare dei sopralluoghi e andavamo in giro per ristoranti. Con la scusa dei sopralluoghi, finivamo sempre a tavola. Una volta mangiato, concludevamo che era sempre meglio fare il film a Cinecittà e tornavamo a casa. Mi ricordo che ogni giorno, puntualmente, mi chiedeva di raccontargli i miei sogni e io non sapevo proprio cosa dirgli.
Poi ho capito che voleva che inventassi e allora ho cominciato ad immaginare quello che potesse fargli piacere sentire, a creare dei sogni su misura.
E così, nell’oretta di viaggio che dovevo fare ogni mattina per arrivare a Cinecittà , pensavo a cosa raccontargli”¦ Lui lo sapeva che io non dicevo la verità , ma era come una prova, un gioco fra noi. E, visto che venivo dalla provincia, le mie storie erano nelle sue corde. Facevo per lui un mio Amarcord personale.
Anche l’incontro con Martin Scorsese è avvenuto negli studi di Via Tuscolana, sul set del “La Città delle donne”. Quella volta venne in teatro a visitare Fellini insieme con i genitori e con Isabella Rossellini, che aveva sposato a Roma.
Mi ricordo che Federico gli fece mettere le sedie per assistere alle riprese e fu molto divertente, perché la scena era girata all’interno di un bordello e lui era lì in viaggio di nozze, con la mamma e con il papà “¦ Ci siamo conosciuti allora, poi lui mi chiamò per fare due film insieme ma io ero sempre impegnato, fino a “L’Età dell’innocenza”, con cui è cominciata la nostra stupenda collaborazione. Quando iniziammo a parlare di Gangs of New York, ci domandammo subito dove poter girare un film ambientato nella New York di fine “˜800.
Allora ho cominciato a disegnare il film a Cinecittà e poi sono andato a trovare Scorsese a Venezia, dove presentava il suo documentario sul cinema italiano, e gli ho proposto di venire a Roma a visitare i teatri e i backlot per costruire gli esterni. Siamo arrivati una domenica pomeriggio, gli studi erano naturalmente deserti e abbiamo visto gli spazi. Io gli ho detto: questo è il posto. Poi siamo andati a mangiare al ristorante “La cascina”, proprio davanti agli studi. Quel film è stato per me molto impegnativo, ho lavorato sulle scenografie per quasi un anno e mezzo, mentre le costruzioni a Cinecittà sono durate cinque, sei mesi.
Era uno spazio enorme, perché abbiamo ricostruito lì tre interi quartieri di New York, tutte le navi, gli interni e gli esterni del film. E’ stato un grossissimo lavoro ed anche una bella soddisfazione averlo potuto girare a Cinecittà . Sono trent’anni, ormai, che ho il mio studio negli stabilimenti di Via Tuscolana.
Mi piacerebbe portare tutti i miei film in questi teatri “” come è successo con grandi titoli come “Il nome della rosa” di Jean-Jacques Annaud e “Le avventure del Barone di Munchausen” di Terry Gilliam – perché è il posto che amo di più ed è importante che il cinema internazionale, così come quello italiano, arrivi in queste mura. Cinecittà è un posto di culto come pochi al mondo, un nostro imprescindibile pezzo di storia.
E credo che questi luoghi vadano difesi e sostenuti. Perché non siano solo storia, ma – soprattutto – presente e futuro.
I ricordi di Dante Ferretti sono stati raccolti e redatti da Chiara Gelato
Cinema&Video International 5-2007