Di questi tempi l’aria è qualcosa che non si dà più per scontata: è oggetto di desiderio nella vita delle persone costrette in casa o peggio, molto peggio, è ciò che manca a chi si ammala di covid. L’aria è protagonista nella conversazione con il regista Daniele Vicari, che ci racconta la genesi della serie “Aria” e del film “Il giorno e la notte”. E ci spiega come sta cambiando il modo di fare cinema. La chiave di lettura? Il paradosso.
La serie
Aria è il titolo di una docu-serie su alcuni italiani sparsi in varie parti d’Italia e del mondo – dalla Cina al Kenya, dal Brasile alla Francia – che si raccontano con smartphone, videocamere, mezzi di ripresa improvvisati, durante il primo lockdown. Dal 29 dicembre è disponibile su RaiPlay, articolata in 6 puntate da 25 minuti.
E’ stata pensata e curata da Daniele Vicari, Costanza Quatriglio e Andrea Porporati e da loro diretta assieme ai giovani Chiara Campara, Francesco Di Nuzzo, Flavia Montini, Pietro Porporati, Greta Scicchitano, con la produzione di Minollo Film.
Racconta Daniele Vicari: “Dopo il 9 marzo ci siamo posti il problema di come raccontare quel che stava avvenendo nel mondo nonostante fossimo chiusi in casa. Dato che tutti postano sui social le loro esperienze, abbiamo pensato: perché non provare ad aiutarli ad estendere e approfondire questa forma di documentazione? Abbiamo così contattato un certo numero di persone a cui abbiamo affiancato giovani cineasti, per aiutare i testimoni ad acquisire gli strumenti tecnici e narrativi necessari per produrre una documentazione, nel tempo, delle loro vicende personali”. La fase delle riprese è durata quattro mesi e si è conclusa in estate. Un lavoro complesso: i diversi filmati hanno composto un puzzle di punti di vista, esperienze, che nel montaggio hanno preso la forma di “una narrazione che ha una sua unitarietà”, rispettando le attese di queste persone “che ci hanno detto: non vogliamo piagnistei, vogliamo solo raccontare chi siamo e cosa facciamo. Questo è diventato il nostro impegno morale”
Da qui la “leggerezza” di “Aria”: “non abbiamo voluto travolgere lo spettatore con il racconto nelle corsie d’ospedale, perché certe immagini le abbiamo ossessivamente sotto gli occhi”. I protagonisti sono persone comuni “che vivono il problema della sistematica distruzione della propria quotidianità da parte di un meccanismo che è la malattia, associata a un meccanismo istituzionale che piano piano erode le loro possibilità di movimento”.
Ma la protagonista delle storie, la malattia, non appare, ad eccezione di una breve sequenza, nell’episodio della volontaria che in ambulanza cerca di confortare un malato dentro una tenda d’ossigeno (che ritorna, non casualmente, nel corso della serie). La malattia è solo evocata, attraverso quel che succede intorno; come nell’episodio della famiglia contagiata dal virus, per mesi “reclusa” in un albergo in Brasile, che quando torna a casa trova il pesce rosso ancora vivo nell’acquario: “ci dice che la vita va avanti, con una metafora talmente leggera che è, appunto, aria”.
La tecnica
“Aria”, è “un film partecipato”, esperimento cui Daniele Vicari non è nuovo, avendo inaugurato questa forma di racconto nel 2007 con Il mio Paese 2.0 (il primo esperimento del genere realizzato in Italia), prodotto da Vivo Film e The Blog Tv, realizzato con filmati inviati dagli utenti, secondo il principio dello “user generated content”, che raccontavano il loro punto di vista sul fenomeno della deindustrializzazione e la conseguente devastazione del paesaggio. La necessità di quest’operazione Vicari l’avvertì realizzando l’anno prima un documentario sullo stesso tema, “Il mio Paese”. Girando l’Italia si rese conto del “grandissimo bisogno del Paese di raccontarsi”, un bisogno solo apparentemente soddisfatto dai mezzi classici della comunicazione.
In quegli anni apparve chiaro a Vicari che la rete poteva diventare lo strumento dell’autonarrazione. “Trovai sorprendente la coincidenza con l’intuizione di Zavattini: con quelle macchinette, così chiamava le cineprese a passo ridotto, chiunque può raccontarsi, diceva”. In mezzo c’è la conoscenza del linguaggio. Ma nel tempo, è convinto Vicari, con l’evoluzione della tecnologia, la sua capillare diffusione, è cresciuta la consapevolezza del mezzo da parte dell’utente. L’esito è che “il racconto audiovisivo non è più appannaggio solo di un’élite intellettuale o tecnologica”.
Il film è comunque un’opera collettiva, “il concetto del film d’autore è un’acquisizione tarda e incerta nella storia del cinema: tutti ricordano, per esempio, le interpretazioni di Greta Garbo, pochi rammentano i registi dei film da lei interpretati; la questione è tornata d’attualità con le serie, dove la figura dello showrunner è dominante e il regista spesso secondario. Lo sviluppo della tecnica conduce spesso a relativizzare la funzione di certe figure professionali, bisogna farci i conti”.
Ma lo “sfarinamento” del concetto dell’autore non comporta la sua scomparsa, anzi. Daniele Vicari ne affronta la complessità: “questo è un momento nel quale, proprio a causa del mare magnum di immagini che ci sovrastano, del caos multimediale, una chiave di lettura del mondo è tornata necessaria. Nel caso specifico di Aria “l’autore” è collettivo. Ma a questo punto della nostra storia “essere autore” credo presupponga un mettersi in gioco anche in prima persona. Nel mio piccolo l’ho sperimentato con il romanzo Emanuele nella battaglia (suo esordio letterario, pubblicato da Einaudi nel 2019, ndr): se non ti metti in gioco non sei credibile, il lettore non ti segue, non ti dà credito. Quindi il nostro è un momento di massima esposizione di sé, e ciascun “autore” deve trovare la giusta misura, più che in passato deve forse essere capace di farsi carico dell’interpretazione del mondo. Quindi siamo nel paradosso: più aumenta il caos e l’autore si dissolve, più è richiesta la sua presenza”.
Il film
Girare un lungometraggio di finzione con i cellulari invece che con la macchina da presa non è facile, ma è possibile: lo ha dimostrato Daniele Vicari, che durante il lockdown si è cimentato, parallelamente alla lavorazione di “Aria”, in un esperimento che non ha precedenti di regia a distanza, realizzando Il giorno e la notte una “kammerspiel” autoprodotta (assieme a Francesca Zanza e Andrea Porporati con l’etichetta Kon-Tiki Film) e in cerca di un distributore, con protagoniste quattro coppie, ciascuna costretta in casa da un misterioso attacco chimico alla città di Roma.
“E’ stata un’esperienza molto appassionante, anche se non facilmente ripetibile: è la conferma che il linguaggio del cinema va oltre le tecnologie, pur avendo, il nostro film, un look professionale”: è stata infatti mantenuta, in forma virtuale, l’organizzazione del set reale, con tutte le competenze apicali presenti, dalla scenografia con Beatrice Scarpato, alla fotografia con Gherardo Gossi, ai costumi con Francesca e Roberta Vecchi, al fonico con Alessandro Palmerini. L’unica differenza era che mancava il gruppo di lavoro di ciascun reparto. Tre delle quattro coppie della finzione – Milena Mancini e Vinicio Marchioni, Barbara Esposito e Francesco Acquaroli, Dario Aita e Elena Gigliotti, Isabella Ragonese e Matteo Martari– lo sono anche nella realtà; si sono potuti così filmare reciprocamente con gli smartphone seguendo le indicazioni da remoto.
Ma per Daniele Vicari, che è anche direttore della Scuola di Cinema “Gian Maria Volonté”, la cosa più importante è che “Il giorno e la notte” abbia fornito il modello che ha permesso agli studenti di non perdere l’anno: “Con i ragazzi abbiamo potuto fare didattica a distanza, sia per l’esercitazione di finzione che per il documentario, sulla base dell’esperienza che abbiamo fatto con la mia troupe”.